L’infanzia raccontata da Ondjaki in ‘Os da Minha Rua’

«A vida às vezes é como um jogo brincado na rua: estamos no último minuto de uma brincadera bem quente e não sabemos que a qualquer momento pode chegar um familiar a avisar que a brincadeira já acabou e está na hora de jantar.»

«La vita, a volte, è come un gioco che si svolge per strada: siamo nell’ultimo minuto decisivo e non sappiamo se da un momento all’altro arriverà qualcuno della famiglia ad avvisarci che il gioco è finito ed è ora di cena.»

minha rua

Se dovessi parlare di Os da minha rua di Ondjaki utilizzando solo poche parole, direi che è “un libro dell’infanzia e per l’infanzia” (ma non una lettura destinata ai bambini), in cui il narratore-autore parla in prima persona raccontando ai lettori pezzi della propria vita da bambino a Luanda, rievocando episodi e fatti più o meno intriganti che si popolano di una moltitudine di persone, fra familiari e amici. Premettendo che i libri di Ondjaki, per quanto si tratti di pubblicazioni tutte abbastanza recenti, sono stati già ampiamente tradotti, ad oggi non mi perviene nessuna versione italiana del libro che mi sono qui proposta di presentare. Può darsi che non sia stato effettivamente ancora tradotto, o chissà che non ci sia qualcuno attualmente impegnato nella traduzione del libro e che non lo si ritrovi, di qui a poco tempo, in qualche libreria fisica o sul web. Ho considerato pure che esso sia potuto esser stato tradotto con un titolo molto diverso dall’originale e che io non riesca a riconoscerlo. Non lo so, lascio qui un margine di dubbio. Ad ogni modo, se dovessi tradurlo in italiano, forse lo intitolerei La Gente del Mio Quartiere, semplicemente perché mi sembra che possa funzionare.

Il libro non ha la struttura di un romanzo, si tratta infatti di una successione di brevi storie che, sia pur possano essere lette isolatamente, insieme funzionano per costruire un racconto, il risultato di un lavoro di ricomposizione dei pezzi di un’epoca passata, ormai fatta dai ricordi e dai racconti di chi vi ha partecipato in modo più o meno influente: l’infanzia. Nomi di persone e di personaggi si moltiplicano nel libro; non mancano menzioni e ringraziamenti alle persone che sono state parte dell’infanzia, o che hanno aiutato a fornire elementi e testimonianze, dando il proprio contributo a questo elaborato di ricordi. Le storie sono generalmente molto semplici, talvolta divertenti, talvolta riportano fatti che hanno provocato una certa sofferenza in tenera età e che hanno lasciato l’amaro in bocca in età adulta. Nonostante ciò, non c’é nulla di estremamente drammatico o sentimentale; tutto sommato, si racconta un’infanzia abbastanza tranquilla e spensierata. Ondjaki è nato poco dopo l’indipendenza dell’Angola e ha vissuto l’infanzia nel cuore di una Luanda urbana, certamente ancora agitata dalle turbolenze del post-indipendenza, ma in cui arrivava appena un sussurro lontano dei tumulti delle guerriglie che si svolgevano in luoghi decentrati del paese. Eppure, nonostante la capitale offrisse una certa sicurezza e tenesse le persone lontane dal cuore dei combattimenti, la politica svolgeva costantemente un ruolo attivo nel quotidiano della gente di Luanda. In più occasioni nel corso della narrazione si fanno riferimenti ai comizi politici (grandi ritrovi cittadini a cui anche i bambini partecipavano), ai cambiamenti della vita sociale, agli spostamenti degli adulti, insomma, tutte cose che facevano parte del quotidiano e che scandivano i ritmi di vita cittadina. I racconti presentano anche una Luanda decisamente multiculturale, ricca di colori, in cui non mancavano i contrasti sociali.

«Ouvi dizer que o pai dela nã gostava de negros mas eu até via muitos negros lá na casa dele a beberem e comerem come ele e todos rirem juntos. Não sei. Se calhar um rapaz negro a dar beijinos na boca da Irene já era uma coisa diferente.»

«Avevo sentito dire che a suo padre non piacevano i neri, eppure ne avevo visti tanti in casa sua che bevevano e mangiavano assieme a lui, e ridevano tutti insieme. Non so. Forse un ragazzo di colore che baciava sua figlia Irene sulla bocca doveva essere una cosa ben diversa.»

Nonostante la specificità dei racconti, dell’ambientazione ed il contenuto autobiografico, emerge dal libro un senso di universalità che rende il contenuto accessibile a tutti, poiché l’infanzia (nella sua accezione più generale) è certamente qualcosa di universale, non legata ad una cultura o ad un luogo. Pertanto, credo che nessun lettore possa avere alcuna difficoltà nel riconoscere alcuni degli stati d’animo tipici d’infanzia descritta nel libro, quali lo stupore, il piacere della sorpresa (l’episodio della prima televisione a colori è un esempio), nonché le dinamiche dei  rapporti con i grandi e con i coetanei. Esistono quasi delle sfere che separano gli adulti dai bambini. Talvolta, pur convivendo, essi non sono ammessi a condividere le stesse cose e gli stessi sentimenti, per ovvie ragioni, poiché la percezione degli uni è diversa da quella degli altri. Persino l’attitudine e la reazione nei confronti della morte è diversa, per quanto essa possa destare un senso di inquietudine e paura in entrambi.

«—Meninos, a tia Maria morreu.
Até tive medo, não daquela notícia assim muito séria, mas do que alguém perguntou:
—Mas podemos continuar a brincar mais um bocadinho?
O tio largou a mangueira, veio nos fazer festinhas.
— Sim, podem.»

«—Bambini, zia Maria è morta.
Ebbi paura, ma non della notizia, in sé stanto seria, bensì della domanda che qualcuno fece subito dopo:
—Ma possiamo continuare a giocare ancora un pochino?
Lo zio si allontanò dall’albero del mango e venne ad abbracciarci affettuosamente.
—Va bene.»

Ondjaki ripercorre le strade principali del territorio della sua infanzia, talvolta entra nelle stradine laterali e nei vicoletti, fa sosta in alcuni luoghi che riesce a riconoscere, li guarda con curiosità e nostalgico affetto, e si lascia guidare dalla memoria e dai sensi.

Al di là del contenuto relativamente semplice delle storie, quello che mi ha colpito e che ho apprezzato maggiormente è stato il tatto e la delicatezza del linguaggio con cui Ondjaki racconta (ed in parte si racconta). Mi è sembrato che egli mantenga volutamente un tono di rispetto nei confronti di un’infanzia che dovrebbe essere (sempre e ad ogni condizione) preservata dal male e dalla corruzione (nonostante non sia sempre così, purtroppo). Il linguaggio è informale, semplice, quasi si tenta di riprodurre il modo di parlare dei bambini, senza però andare a penalizzare la correttezza grammaticale e sintattica del discorso. L’infanzia di Ondjaki non è meno importante delle altre fasi della vita, semmai è la più significativa. Essa non è semplicemente l’età dell’innocenza, bensì l’età cruciale in cui si innescano i meccanismi che cominciano a definire l’identità di un individuo. L’infanzia possiede, potenzialmente, la massima energia e capacità di assimilazione, comprensione, rielaboraizione e creazione. Nello stesso tempo, c’é una sorta di placenta che avvolge quest’epoca così fondamentale della vita degli esseri umani, è quasi un’aurea, che a tratti si spacca per far penetrare a piccole dosi gli elementi (buoni e cattivi) che fanno parte del mondo circostante.

Dall’altra parte, la lingua è un punto estremamente interessante del libro, poiché Ondjaki non rinuncia a condirla con ingredienti locali, ovvero con termini ed espressioni di uso quotidiano, specifici della variante del portoghese angolano. Così il lettore, quanto meno colui il quale riesce a cogliere la differenza fra le varianti linguistiche ma che pur non ha una grande conoscenza del portoghese angolano, leggendo il libro nella lingua originale impara a familiarizzare con un ventaglio di elementi linguistici molto interessanti. Non mi soffermo troppo su questa questione, perché meriterebbe un discorso a parte, ma un termine in particolare (che non avevo sentito prima) mi ha impegnato del tempo per riflettere: il verbo estigar. Ho pensato che estigar (da cui il sostantivo plurale estigas) possa essere reso in italiano con canzonaresi riferisce in particolare alla pratica di costruire frasi creative per prendere il giro un soggetto preso di mira (una canzonatura). Ondjaki ha avuto modo in più occasioni di argomentare su questo punto, a proposito segnalo un video in cui egli sostiene l’importanza delle estigas come dei contesti di creatività linguistica. In appendice al libro si trova un apposito glossario in cui sono elencati i termini angolani in uso e le relative spiegazioni, onde evitare problemi di incomprensione del testo o malintesi.

Ondjaki.
Ondjaki.

L’ultima storia del libro, che per me è stata quella più intensa e ricca di emozioni, mi ha dato la sensazione di leggere una poesia in prosa. Si descrive il ritorno dal mare di una giornata interrotta da una pioggia scrosciante, un evento talvolta atteso da chi vive in un posto generalmente arido e caldo durante il corso dell’anno. Si descrive un ragazzo che sta per diventare uomo e che sta per lasciare la casa di famiglia in cui è cresciuto. Di tanto in tanto risuona la voce di sua madre che acconsente alla partenza: è giunto il tempo di andar via, di viaggiare, di andare a studiare fuori e pensare al futuro. Corpi, voci, lacrime e gocce di pioggia si sovrappongono in un groviglio inestricabile. Alla fine, giunge persino la voce consolatoria e incoraggiante di nonna Agnette, una delle figure portanti dell’infanzia che, si ricorda, ha contribuito alla scrittura del libro con i suoi racconti:

—Uma casa está em muitos lugares — ela respirou devagar, me abraçou. —È uma coisa que se encontra.

—Una casa può essere in tanti posti— disse respirando lentamente e abbracciandomi.—Basta solo trovarla.

Ed ecco l’invito finale a partire, a prepararsi per un nuovo viaggio, per scrivere altre pagine di vita, e non ci sarà motivo alcuno di avere paura ad affrontare ciò che ci sarà sul cammino e essere liberi.

Perché leggere il libro? Perché, nonostante credo sia una lettura abbastanza leggera, offre un interessante squarcio della recente Luanda degli anni ‘70-’80. In realtà, piuttosto che dare delle motivazioni di lettura, me sentirei di consigliarlo ad un target di lettori che ha nostalgia di quando si era bambini e della genuinità pulita dell’infanzia; a chi ben si ricorda di quanto potente fosse la nostra capacità di immaginazione quando eravamo piccoli e che, se avessimo potuto scrivere quello che avevamo nella testa, ne sarebbero venuti fuori dei racconti meravigliosi.

Perché non leggere il libro? Non lo consiglierei a chi si è scordato di com’è stato essere bambini e non ha intenzione di fare uno sforzo mentale per cercare di ritornare (almeno solo spiritualmente) indietro nel proprio tempo. Non lo consiglierei a chi considera l’infanzia una fase di vita ‘minore’, né a chi pensa che le cose ad essa associata siano più che altro delle ‘bambinate’ di scarsa importanza e che la vita reale cominci quando si diventa adulti. Suppongo che un’attitudine del genere, purtroppo, farebbe risultare il libro troppo banale e poco interessante.

Link: Una storia da Os da Minha Rua, Una Goccia di Pioggia.


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