Immagini, raffigurazioni, stereotipi e feste di Natale

Ci sono cose che entrano nell’immaginario collettivo secondo  dinamiche di diffusione più o meno complesse, secondo gradi di importanza o di impatto sulle comunità,  più o meno dipendenti dai sistemi di comunicazione e da chi li gestisce.

Così, il Natale è una di quelle feste piene di tradizioni, simboli e simbologie pagane, cristiane o di altra provenienza, che si sono tramandate attraverso i secoli e si sono diffuse nelle varie civiltà e culture.
Per alcuni il Natale ha un forte valore religioso; per altri esso si associa ad elementi quali neve, regali, dolciumi e feste; alcuni tendono persino a sentirsi un po’ più buoni e gentili con (quasi) tutti, facendosi trascinare da un’atmosfera tendenzialmente gioiosa e pacifica (ma non si sa se questa sia reale o apparente), anche se le guerre non vanno in ferie.
Nonostante le differenze e la peculiarità secondo le quali il Natale si caratterizza e viene percepito da ciascun popolo e da ciascuna comunità, ci sono alcune immagini che hanno preso il sopravvento più di altre a livello globale. Si tratta di immagini stereotipate, simboli, elementi estrapolati dalle culture dominanti e ampiamente diffusi: tipiche decorazioni rosse e innevate, angioletti candidi e biondi, renne e Babbi Natale paffutelli e canuti nell’abito rosso che (quasi) tutti riconosciamo grazie alla diffusione massiccia della pubblicità della Coca-Cola negli anni ’30, e tanto altro.

Per esempio, senza che io vada geograficamente troppo lontano, anche per me vivere un ‘Bianco Natale’ era stato un sogno da bambina, che ricordo essersi avverato solo una volta nel posto in cui sono cresciuta. Nella realtà, la maggior parte delle volte il Natale nell’Italia meridionale era una giornata piuttosto mite, talvolta persino assolata, eppure io continuavo a sognare di svegliarmi un bel giorno del 25  di dicembre e di godermi la vista di un paesaggio innevato dalla finestra e, poi, andare a giocare all’aperto con la neve. Questo finché non mi capitò, in età un po’ più matura, di ritrovarmi una mattina di dicembre in un paese del nord Europa, circondata da neve e ghiaccio, a dover raggiungere il posto di lavoro con la macchina che scivolava sul ghiaccio ed ero incapace di muovere quattro passi di fila senza fare un capitombolo. Inoltre, la zona era stata colpita dalla mancanza d’aqua corrente nelle case per il problema delle tubature dell’acqua scoppiate a causa del gelo. Da allora mi sono resa conto di essere abbastanza insofferente alle basse temperature ed ho cominciato ad avere un rapporto ostile con la neve  ed a sperare di non vivere più un ‘Bianco Natale’. Comunque, a prescindere dal semplice episodio qui rievocato ironicamente, l’idea (o la rappresentazione ideale) della neve del nod è stata una delle cose che, insieme ad altre,  è stata modificata una volta venuta a contatto con una realtà diversa.

E poi, ritornando alla questione del Natale, c’è chi non lo considera affatto una festività, né in termini religiosi né pagani (non ritrovandosi evidentemente in nessuna delle culture di riferimento); c’è chi non gradisce neppure ricevere auguri; c’è chi si unisce al coro e chi invece decide di starne fuori; c’è chi non ha mai festeggiato un Natale poiché è solo un giorno come tanti altri e chi, diversamente, non ha un particolare motivo per festeggiarlo.

Ad ogni modo, rivolgo qui un augurio di buon fine anno e di buon Natale, Diverso o Uguale che sia.

 

***

 

Letture di Natale

 

  1. Da Asia in My Life, un articolo di Ngũgĩ wa Thiong’o.

«Per quanto mi riguarda, ho sempre dato per scontato che la mia formazione intellettuale e sociale fosse legata all’Inghilterra e all’Europa, escludendo qualsiasi tipo di legame con l’Asia e il Sud America. Infatti, c’era un motivo per cui io scrivessi in inglese. I miei eroi letterari erano inglesi. Essendo il Kenya una colonia inglese, avevo studiato la geografia e la storia dell’Inghilterra e su questo si basava la mia visione del mondo. Persino il movimento di resistenza anti-coloniale poneva l’Europa al centro della disputa. Si trattava di noi, ovvero l’Africa, contro loro, ovvero l’Europa. Mi sono laureato in inglese presso il Mekerere Cololege in Uganda nel 1964, in seguito ho avuto modi di approfondire gli studi presso l’Universita inglese di Leeds. Quest’ultima è stata un punto di incontro per gli studenti del Commonwealth: India, Pakistan, Australia e le isole dei Caraibi. Ci osservavamo attraverso il filtro dell’inglese. Il tipo di relazione che avevamo con l’Inghilterra, che fosse ammirazione o ostilità, determinava la costruzione del nostro spazio comune.

Dopo aver scritto ‘Sogni in Tempi di Guerra’, il libro dedicato alle memorie della mia infanzia pubblicato nel 2006, ho avuto modo di riguardare indietro nel tempo e mi sono reso conto di quanto l’India abbia ricoperto un ruolo altrettanto importante nella mia vita. Nonostante non avessi intenzionalmente voluto trattare il tema dell’India, eccolo che faceva capolino dalle pagine dei miei racconti. Così viaggio indietro nel tempo, ritornando ai giorni in cui vivevo ancora in famiglia, i tempi della scuola, dell’università e tante altre cose.

Non sono cresciuto in una famiglia cristiana, tuttavia festeggiavamo il Natale, come tutti del resto; era un carnevale per il bambini e la cosa che preferivano era andare tutti insieme di casa in casa per poter assaporare i cibi più buoni. Eravamo vegetariani durante l’anno, non per scelta, e per molti di noi il giorno di Natale era un’occasine per mangiare la carne per la prima volta. Per me il Natale significava poter gustare il gĩtoero, ovvero uno stufato di patate, piselli e fagioli insaporito al curry, a volte c’era fatto anche con carne di agnello o pollo, ma l’ingrediente principale dei piatto era il cabaci, a volte chiamato mborota.
Ancora oggi in Kenya a Natale, e in generale durante tutte le festività, la gente festeggia  con cabaci, thambutha e mandathi in abbondanza, ovvero le nostre versioni dei corrispondenti piatti indiani chapati, paratha e samosa. Spezie, curry, peperoncino piccante e affini, tutte cose provienti dall’India, sono ormai diventati talmente fondamentali nella cucina keniota che avrei persino giurato fossero indigeni.

Non limitandosi ad essere una caratteristica peculiare del Natale, in Kenya l’ospitalità fa parte del quotidiano, essa significa essere accolti in casa degli altri con una tazza di thè che, per essere precisi, consiste in un infuso di foglioline di thè con zenzero, latte e zucchero mischiati insieme, che donano un gusto particolarmente speziato. Non offrire una tazza di thè ad un ospite o ad un vicino è segno di avarizia o di povertà; d’altra parte, un rifiuto da parte di un invitato viene interpretato come un’offesa. Tutto ciò mi era sempre sembrato così puramente africano che se avessi visto un indiano bere del thè o preparare del curry avrei pensato che fosse una conseguenza dell’influenza africana.

[…]

Ho sempre ritenuto necessatio che l’Africa, l’Asia e l’America del Sud potessero imparare dal reciproco scambio. Questo processo di scambio intellettuale e letterario da Sud-a-Sud fu al centro del dibattito letterario a Nairobi durante i primi anni ’60, ed è il fulcro delle mie recenti ricerche teoretiche nell’ambito della Globalettica (o dialettiga globale): Teoria e Politica del Sapere. Dal suddetto dibattito ne è venuto fuori un indice di punti che si incentrano sullo studio di scrittori Indo-asiatici, caraibici, afro-americani, sud-americani, che si affiancano agli scrittori della tradizione europea. Il risultato non è stato particolarmente gradito dal regime neo-coloniale keniota, il quale ha accusato me e i miei colleghi di aver rimpiazzato Shakespeare con i rivoluzionari marxisti provenienti dall’Asia, dai Caraibi, dall’America del Nord e dall’America Latina, fra cui Lu Xun, Kim Chi Ha, V.S. Naipaul, George Lamming, Kamau Brathwaite, CLR James, Alejo Carpentier, Richard Wright, and Ralph Ellison. Naturalmente per noi Shakespeare era salvo, ma avevamo apparentemente commesso il crimine di collocarlo in mezzo ad altri scrittori, oltre ad aver cambiato il nome del dipartimento da Letteratura Inglese a Studi delle Letterature Senza Frontiere, che avevamo ritenuto più adatto».

2. Da In the House of the Interpreter (2012), Ngũgĩ wa Thiong’o.

 

«[…] Uno dei dibattiti più accesi era quello sulla questione del colore della pelle di Dio e di Gesù. Il 26 settembre 1956 Sam Ntiro, insegnante presso l’Istituto d’Arte di Mekerere, insieme ad uno dei suoi studenti, Elimo Njau, venne in visita presso la nostra scuola in occasione di un incontro sull’arte. Ci mostrarono  alcune opere pittoriche raffiguranti un Cristo nero, a dimostrazione che Gesù non era nato in Europa e non aveva la pelle bianca. Nonostante non ci fossero raffigurazioni di Dio, essi mettevano in discussione la teoria della rivelazione di Dio nei diversi colori dei vari popoli. In fondo, Dio aveva creato l’uomo a sua immagine e somiglianza, ovvero i neri per il suo meraviglioso color corvino e i bianchi per il suo color candido argenteo.

Molti, però, erano scettici poiché tutte le figure che avevamo a disposizione sui libri e sulle riviste mostravano un bambin Gesù bianco con gli occhi azzurri. Alcuni insegnanti ci dicevano che Dio non aveva bisogno di guardare attraverso la lente della razza. Dio non era di nessun colore. Gesù era bianco, e il bianco è l’assenza di colore».

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Albero di Natale 2015 a Maputo (Mozambico), composto da oltre 7000 bottiglie di plastica e realizzato nell’ambito di una campagna di sensibilizzazione a favore della raccolta differenziata e del riciclo delle risorse.

 

 

 

7 responses to “Immagini, raffigurazioni, stereotipi e feste di Natale”

  1. un carissimo augurio a te! l’articolo è, come sempre, splendido, fa viaggiare tra molteplici traiettorie e questo è molto interessante, almeno per me è così
    felice notte
    dora

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