“Beirut” dalle pagine di Mahmoud Darwish

Per certi aspetti il 2020 ha trasformato la sofferenza individuale in una specie di “male comune”, o almeno parzialmente condiviso. Nonostante abbia esacerbato esistenti differenze e disparità, ha anche diffuso un senso di empatia sentita nei confronti di quello che ha colpito il singolo.

La pandemia, per definizione, è un’epidemia con una forte carica di propagazione, in grado di attraversare vasti territori e persino più continenti in tempi abbastanza ridotti; così, ad un certo punto, a diffondersi non è soltanto il virus, inevitabilmente.

Non c’è unicità in questo fatto, ma questa volta l’abbiamo potuto documentare nel dettaglio, seguire in diretta, commentare, taggare e condividere grazie ai mezzi di comunicazione disponibili. Se ci fossimo ritrovati chiusi in casa con restrizioni sociali trent’anni fa, l’esperienza sarebbe stata ben diversa. Invece, oggi e in questo modo, immagini e parole sono schizzate istantaneamente da una parte all’altra del mondo, talvolta alterate, distorte e filtrate da interpretazioni o visioni.

Quest’anno l’immagine di Beirut è quella del prima e del dopo, di un cielo azzurro che è stato in qualche secondo inghiottito da una nube di fumo nero e schegge rosse. E poi le macerie, e la vita che rimane con la disperazione e la voglia di ricostruire. Ma chi conosceva Beirut prima del 4 agosto 2020?  Viaggiatori a parte, chi conserva certe memorie della città, della sua gente e delle sue strade? Sono andata a ricercarla fra le pagine dei libri, perché non ho voglia di avere soltanto l’immagine macabra del prima-dopo che ha inevitabilmente preso il sopravvento, del boato terrificante descritto da altri ed appena immaginato da me. Un giorno anche questa sarà dimenticata e dovrà essere rievocata dalla memoria di qualcuno.

Ho trovato la Beirut reale ed immaginaria di Mahmoud Darwish (1941-2008), poeta e scrittore palestinese, nato in un villaggio della Galilea e rifugiato in Libano dopo la proclamazione dello Stato di Israele e la Nakba (o esodo palestinese). Ancora bambino, ritorna con la famiglia nella patria depredata, per riscoprirsi un profugo senza identità e proseguire la sua vita da esiliato in vari paesi, alla continua ricerca di una casa distrutta. In realtà, Darwish trova la sua vera patria proprio nelle parole e nella letteratura, acclamato da molti e definito da José Saramago uno dei più alti ed imponenti poeti a livello mondiale.

Estrapolo un pezzo della Beirut di Darwish dalle parine di Una Trilogia Palestinese (Feltrinelli) e non commento il libro questa volta, almeno non ora, bensì condivido una bella recensione dal blog ParlaDellaRussia. Da una ricerca su internet mi sono resa conto che pochi hanno parlato di questo libro, bello e complesso nello stesso tempo. Il seguente estratto non vuole dare un’immagine universale di Beirut, d’altronde non si potrebbe fare una cosa del genere nei riguardi di nessuna città, ma si tratta di un frammento degli anni ’80 vissuti da Darwish. La guerra civile interna, scoppiata in seguito all’assassinio del presidente cristiano Bachir Gemayel, si sovrappone alle questioni internazionali, vedendo fin da subito coinvolti la Siria, le nazioni straniere (fra cui anche l’Italia) e Israele, quest’ultima forza a sostegno della fazione contro i musulmani ed impegnati della rimozione dell’Olp dal Libano.

Tuttavia, ne abbozzo almeno il contesto. Beirut è la capitale di un paese costituitosi su un territorio disomogeneo dopo lo sfaldamento dell’Impero Ottomano. Beirut ha mantenuto gli splendori di delle civiltà antiche e accettato il le influenze multietniche, coltivando arte e tradizioni; ma dalla prima Repubblica libanese (1926), costituitasi sotto il mandato francese, fino all’indipendenza (1943), essa ha dovuto far fronte a instabilità e gravi disordini. La costituzione di uno stato nazionale formato da cristiani (fra cui i maroniti e copti), musulmani (sunniti e sciiti), drusi, ebrei e altre minoranze, non può essere lineare e semplice. L’invasione massiccia dei profughi palestinesi cacciati dai territori occupati del sud, il rafforzamento di un’organizzazione forte come l’OLP, gli interventi dei siriani e degli israeliani hanno complicato le dinamiche, alternando guerre civili a (dis)accordi internazionali e multinazionali. Nel frattempo il porto di Beirut ha continuato ad espandersi e a mantenere un ritmo di produzione elevato, intensificando il contrasto fra sviluppo e ristagno. 

 

Ma Beirut, in sé, è bella? La coltre di traffico, di vocio, di ressa e di strepiti del commercio non ci ha mai permesso di saperlo. E Beirut non è più stata una città, è diventata un concetto, un’idea, un termine, un’accezione. Beirut pubblicava libri, distribuiva giornali, organizzava convegni e conferenze che affrontavano i problemi del mondo ma non badava a se stessa. Era troppo occupata a sbeffeggiare la sabbia e l’oppressione che la attorniavano. Un laboratorio di libertà, era. Sui suoi muri, l’enciclopedia della modernità. Una fabbrica di manifesti, Beirut. Forse la prima città al mondo in cui i manifesti si sono nobilitati in giornali. Può darsi che la potenza evocativa del suo substrato- fatto di diversità, di morte, di anarchia, di libertà, di alienazione, di esilio e di mescolanza di popoli – avesse già praticato fino alla noia tutte le forme di espressione tradizionale e abbia finito per trovare nei manifesti un’intensità di dire il quotidiano che i giornali non hanno. Tanto che i manifesti, fossero in prosa o in poesia, sono diventati il tramite dell’eccezionalità. Facce appese ai muri, martiri che hanno appena abbandonato la vita e la tipografia. Morte che reinterpreta la propria morte. Un martire che rimuove dal muro la faccia di quello che l’ha preceduto per insediarsi al suo posto finché a rimuoverlo non arriva un terzo morto, oppure la pioggia. Slogan che cancellano altri slogan, che li sostituiscono enunciando le priorità dell’entusiasmo e le parole d’ordine dell’internazionalismo quotidiano. Qui,  succede tutto quel che succede nel mondo, a volte di riflesso, a volte in forma di prototipo. E così due intellettuali potrebbero litigare in un caffè parigino e il loro scontro verbale, qui, potrebbe degenerare in conflitto armato. Perché Beirut deve essere solidale, deve condividere ogni novità, ogni innovazione, ogni nuovo movimento, ogni nuova teoria. Film di rivoluzioni in fast forward. Video di immediata fruizione. Fa la sua apparizione un nuovo leader? O una nuova star? L’ambito non è importante, sono comunque candidati a diventare il leader o la star di Beirut. Insomma, i muri della città rigurgitano di fotografie e di parole, i passanti faticano a tenere dietro a una coscienza volubile. È per questo che le star e i leader hanno vita breve. Non tanto perché, qui, il pubblico si annoia in fretta – dopotutto il loro pubblico non è qui – ma perché il modello americano impera anche quando si hanno finalità antiamericane. Qui, vivono i portavoce permanenti di ogni nuova coscienza, di ogni nuova orchestrazione, di ogni nuova corrente, che si tratti di un accendino appeso al collo di una ragazza in jeans, emblema dell’estremismo di sinistra, o di un velo integrale, indice del ritorno alla purezza delle origini, oppure della pervicace determinazione a etichettare Karl Marx come orientalista, riprova che il vento dell’est ha ripreso a soffiare. Qui, c’è un ripetitore planetario che capta ogni voce fuori dal coro e la riprogramma per una popolazione impegnata a garantirsi il pane, l’acqua e la sepoltura dei suoi morti.

M. Darwish, Una Trilogia Palestinese, Feltrinelli 2017, Traduzione di R. Ciucani, E. Bartuli.      

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