L’augurio più sincero che io ti possa fare è di continuare a cercare, senza arrenderti davanti a ciò che non capisci.
Se è vero che non bisognerebbe mai giudicare un libro dalla copertina, confesso di lasciarmi talvolta influenzare dal titolo. Non succede sempre, chiaro. È tanto meglio che il titolo non mi suggerisca nulla, in tal modo non mi verranno in mente strane idee. Credo si tratti semplicemente di associazioni mentali soggettive, forse persino di qualche sottile mania da lettrice, ma è pur innegabile che il titolo sia un elemento importantissimo.
Confesso che sarei passata in libreria davanti a questo volume con indifferenza per due motivi:
- Il titolo: Ho scritto T’Amo sulla Tela, mi aveva istintivamente fatto pensare ad una narrazione incentrata su una storia un po’ troppo sentimentale e smielata, una di quelle che mi annoiano parecchio.
- Il sottotitolo: La storia dell’arte in dodici profili di donna. Interessante, certo. Però, onestamente parlando, in circa duecento pagine che sono per giunta sono scritte in caratteri abbastanza chiari, anticipavo che ci sarebbe stato appena qualche cenno alla storia dell’arte.
Tuttavia, per fortuna le cose sono andate diversamente. Per coincidenza mi sono trovata nel mio paese d’origine in occasione della presentazione del libro, la mia amica libraia mi aveva ricordato l’appuntamento dell’evento, e lì la mia attenzione è stata catturata. C’era anche l’autore, Carlo Vanoni, e naturalmente il libro, Ho scritto t’amo sulla tela (Solferino, 2020). Pertanto ripropongo su questo blog un tipo di format abbastanza analogo alla realtà, lasciando innanzitutto spazio all’autore, per poi condividere la mia personale (ri)lettura o interpretazione del libro.
Grazie all’originale struttura narrativa che unisce il tono didascalico del saggio e la finzione romanzesca più sciolta, seguiamo il soggetto-protagonista, un io narrante in prima persona, attraverso un viaggio che abbraccia ben oltre cinque secoli. È un viaggio metafisico, temporale e anche di formazione, perché alla fine del libro ho trovato che l’io-narrante fosse maturato rispetto all’inizio e più consapevole in merito al concetto di arte, amore e bellezza. In effetti tutto comincia da una domanda che egli si pone e a cui intende trovare una risposta: “Quando è stata la prima volta in cui mi sono innamorato?”. Si tratta di un amore a tutto tondo e in tutte le sue possibili accezioni.
La prima volta che mi sono innamorato è stato nel 1512.
All’epoca vivevo a Roma e frequentavo la cerchia di Agostino Chigi, l’uomo più ricco del suo tempo. […]
Quell’anno lo stavo accompagnando a Venezia a riscuotere soldi dai suoi debitori, a vendere allume al doge, a fare un salto in qualche postribolo di lusso per poi tornare a Roma con un’avventura in più da raccontare. Non sapevo che da lì a breve mi sarei innamorato di una donna.
La sua donna.
La donna di Agostino Chigi detto il Magnifico. Venezia, quando c’è di mezzo un innamoramento, aiuta molto.
Il narratore ci presenta dodici ritratti di donna che hanno lasciato un segno importante nella storia dell’arte sulla scena mondiale, andando però a scavare sotto la crosta del colore indurito sulla tela, oppure re-immaginando il blocco di marmo da cui tutto aveva avuto origine. Dal Rinascimento italiano al concettualismo post-moderno, passando per i lumi della ragione, la rielaborazione dei classici, la crisi d’identità e lo sgretolamento dell’individuo (I/eye), attraverso sperimentalismi e rivoluzioni: incontriamo storie di donne e uomini che hanno fatto arte su committenza, per amore, per lavoro e per comunicare qualcosa oppure cambiare vecchi costumi.
Il narratore si immerge completamente in questo percorso di ricerca seguendo quasi la scia di un monologo teatrale, proponendosi come il protagonista-chiave che collega le varie storie: è lui che attraversa oceani e paesi, si innamora perdutamente, soffre e gioisce al fianco degli artisti e dei loro personaggi inventati o reali. Mi è capitato qualcosa di analogo quando, magari guardando un quadro in un museo, ho immaginato di trovarmi proprio su quella tela, perché l’unico modo per comprendere un’opera spesso è proprio ritornare al momento della creazione, per non rischiar che quegli abiti, quei personaggi e quelle pennellate di colore non abbiano alcun senso. Ma è opportuno ricordare che, al di là della finzione e degli espedienti letterari qui utilizzati, le storie degli artisti ed i fatti sono veri ed estrapolati da una corposa biografia inclusa in appendice.
Il narratore non scende mai nel tono accademico, fatto che talvolta mi è dispiaciuto perché, specie in certi passaggi, avrei davvero avuto voglia di approfondimenti e dettagli. Ma evidentemente non è questo l’obiettivo del lavoro.
Non so se sia stata una preferenza dell’autore in prima persona o piuttosto una scelta di pubblicazione – sarei più propensa a optare per quest’ultima-, ma all’interno del libro mancano le immagini, fondamentali per completare l’esperienza di lettura. È necessario pertanto munirsi di un dispositivo qualsiasi, recuperare il materiale di supporto visivo e magari fare qualche ricerca. In effetti mi è successo di dubitare se la Cleopatra di Tiepolo di cui si stava parlando fosse l’opera attualmente custodita a Melbourne o quella della famiglia veneziana dei Labia. Pertanto ho pesato di allineare tutte le dodici donne in fila nella galleria in fondo a questo articolo, con il nome del soggetto femminile affiancato a quello dell’autore, ove possibile.
Oltre la scrittura scorrevole e anche divertente in certi tratti, ho apprezzato questo libro per due temi principali: il linguaggio e il tempo.
Devo aver ovviamente personalizzato e adattato la mia lettura perché, nonostante io apprezzi l’arte figurativa, non sono un “tecnico” né una studiosa della disciplina. Ma è pur vero che poiché l’arte consiste effettivamente in un insieme di linguaggi non statici, questo testo è anche un saggio-romanzo sulla semiotica.
È interessante osservare il tipo di segno utilizzato nei ritratti di donna presentati, così variegati e culturalmente distanti, nonché il ruolo del colore, della linea e delle forme, degli spazi sia vuoti che riempiti. Dalle linee curve della Galatea raffaellita a quelle squadrate della Dora Maar picassiana, e inglobando persino il realismo fiammingo della donna della circassa, quello che cambia è proprio il linguaggio, il modo di rappresentare e comunicare qualcosa. Si arriva persino al punto in cui la tela o la scultura non soddisfano e non rendono nuovi concetti, tanto che gli artisti decidono di mettere in scena il proprio corpo, scegliendo la via della performance in luogo dell’esposizione. Quindi per comprendere l’arte, e non soltanto la mera opera artistica in sé, è fondamentale possedere questi linguaggi che sono dei codici per accedere alla conoscenza, per leggere la realtà e analizzare la nostra Storia.
Tuttavia è da tenere in conto che questi linguaggi cambiano nel tempo, infatti basta sfogliare la galleria qui in basso per vedere palesemente la trasformazione del segno. Ed ecco che entra i gioco l’altro tema che ho individuato, ovvero il tempo, quell’elemento minaccioso e problematico per l’essere umano perché, anche quando non lo si ammette o lo si esorcizza, incute un certo timore e soggezione. Le correnti artistiche – spesso definite a posteriori- sono delle fasi di una determinata cultura della storia del genere umano, che all’interno possono incorporare micro-culture, dominanti o subordinate. Pertanto l’arte si presenta non come un fatto chiuso e definito, bensì aperto, cangiante, mutante, e proprio in questo si trova il suo valore più importante di libertà.
La vita di Raffaello era stata breve e veloce come segnata dalla lancetta dei secondi, quella di Giulio II era stata scandita da quella dei minuti. La vita di Michelangelo, morto a novant’anni, era stata misurata dalla lancetta delle ore. Possiamo dire che la velocità con cui le loro vite si sono consumate è misurabile nell’arco di un giorno solo.
Quando il giorno muore, ne nasce un altro.
Quando un anno finisce, ne comincia uno nuovo.
E così per decenni, fino a quando il tempo si dilata e i decenni diventano secoli.
A quel punto l’indicatore non è più la vita del singolo artista e neppure quella del calendario, ma uno strumento più sofisticato che travalica i confini dettati dal tempo: l’opera d’arte.
Allora anche io ho finito con l’innamorarmi di queste donne, così diverse da me tanto per l’aspetto estetico che per fattori culturali. Oppure mi sono innamorata dell’uomo che ha avuto la sensibilità e la pazienza di fermarsi a comprendere i complessi linguaggi di quelle donne.
Ed infine, che farne di quel titolo che all’inizio avevo commentato con un certo tono di contrarietà? Non lo so, e a questo punto non ha importanza. Forse anch’esso nasconde un significato o allude a qualcosa che non sono stata ben in grado di comprendere.
3 responses to ““Ho scritto t’amo sulla tela” di Carlo Vanoni, dodici profili di donna”
Che bella recensione! Deve essere un libro interessante e piacevole
LikeLiked by 1 person
Una piacevolissima lettura, grazie Luisa! 🙂
LikeLiked by 1 person
Buon pomeriggio!
🌺 🙏 🌺
LikeLiked by 1 person