Il vecchio Pascoal aveva la barba lunga e bianca, anzi bianchissima, che gli arrivava fino al petto.
Non la lasciava di certo crescere per seguire una moda, si trattava di trasandatezza, perché viveva in uno stato di vera e cruda miseria. Eppure, gli capitò di trovare un lavoro proprio grazie alla sua barba, ma anche l’essere nato albino gli fu in un certo modo d’aiuto. Aveva la pelle di un geco, gli occhi semichiusi dal colore rosato, sempre nascosti dietro dei grossi occhiali scuri. In verità, aveva smesso di cercare lavoro, poiché era convinto che sarebbe morto di lì a breve in una delle tante strade della città. Pensava che sarebbe morto di tristezza anziché di fame, come si poteva pensare, poiché per riempirsi lo stomaco gli bastava la zuppa, che il Generale gli metteva ogni sera da parte, e qualche crosta di pane che lui stesso recuperava dai bidoni degli scarti. La notte dormiva in una birreria, sdraiato sul tavolo da biliardo e avvolto in una coperta, altra gentile concessione del Generale, ma continuava a sognare di trovarsi sul bordo della piscina.
Aveva lavorato per quarant’anni presso una piscina, occupandosi fin dal primo giorno della sua manutenzione. D’atronde sapeva leggere, fare i conti e si ricordava tutte le preghiere che aveva imparato nella missione. Inoltre, era onesto, teneva molto alla pulizia ed era dedito al lavoro. I bianchi lo tenevano in buona considerazione, non facevano altro che chiamare il suo nome, Pascoal, in ogni momento. Gli affidavano i loro bambini più piccoli senza problemi, lo invitavano alle partite di calcio, infatti Pascoal era diventato portiere; alcuni gli confidavano cose intime e gli chiedevano in prestito la sua stanza quando avevano bisogno di appartarsi con chi desideravano.
La stanza di Pascoal si trovava proprio affianco agli spogliatoi degli uomini. Era la sua casa a tutti gli effetti. I bianchi gli davano pacche sulla spalla e dicevano: Pascoal, in tutta l’Africa un nero più bianco di te non c’è.
Raccontavano addirittura barzellette sugli albini: lo conosci quel capo dei capi che fu invitato a fare un discorso nel giorno dedicato alla razza? Quello salì sul palco, si schiarì la voce e cominciò a parlare: “Qui in Angola siamo tutti portoghesi, bianchi, neri, mulatti e pure albini. Siamo tutti portoghesi”.
Al contrario, i neri non vedevano Pascoal di buon occhio. Quando gli passavano davanti, le donne storcevano la bocca, sputavano per terra o, ancora peggio, facevano finta di non vederlo. I ragazzini saltavano oltre il muretto di recinzione, prima ancora dell’alba, e si tuffavano nella piscina. Costringevano Pascoal ad alzarsi, ed egli usciva fuori in mutande e gridava a squarciagola per farli andar via. Un giorno si procurò una pistola ad aria compressa di seconda mano, e cominciò a lanciare colpi contro i ragazzini, nascondendosi dietro i tronchi delle acacie per coglierli di sorpresa.
Quando i portoghesi lasciarono il paese, Pascoal capì che per lui i bei termpi erano giunti al termine. Rimase a guardare con disgusto l’entrata dei guerriglieri, le sparatorie ed i saccheggi che si susseguirono. Quello che lo fece star più male, nei mesi successivi, fu vederli buttarsi in piscina, fra loro si chiamavano tutti con l’appellativo di compagni, come se non avessero nomi propri. I ragazzini, gli stessi che un tempo Pascoal aveva cacciato via con colpi d’aria compressa, ora venivano a mettersi sui trampolini e facevano pipì in piscina. Tuttavia, un giorno venne a mancare l’aqua. Non ritornò il giorno successivo e nemmeno quello dopo, finché non si esaurì completamente. Il cloro si consumò e la piscina si prosciugò. Rimase appena sul fondo dell’acqua di un color giallino pallido, e la piscina si riempì subito di rane. Pascoal andò subito a prendere la sua pistola ad aria per tentare di fermarne l’invasione, ma il suo sforzo fu vano. Anzi, quante più rane uccideva, tante altre ne comparivano, e queste erano ancora più grosse e felici di quelle di prima. Nelle notti di luna piena cantavano fino a notte fonda, e il loro gracchiare copriva il suono degli spari che si percepivano in lontananza insieme all’abbagliare dei cani.
Una coltre di tepore scese giù invadendo le case e la città cominciò a morire. L’Africa—la chiameremo così—iniziò a riconquistare quello che un tempo aveva posseduto. Si scavarono pozzi nei cortili, si accesero i falò nei campi, le radici delle piante distrussero l’asfalto per invadere le strade, i muretti e gli spiazzali. Le donne accatastavano grano nei saloni. I frigoriferi cominciarono ad essere usati come scarpiere. Le casse armoniche dei pianoforti diventarono accoglienti gabbie per conigli. Generazioni di caprette crebbero mangiando biblioteche, e diventarono capre erudite, alcune di loro si specializzarono in letteratura francese, altre in economia e, ancora, architettura. Pascoal svuotò la piscina, la ripulì e mise insieme i soldi precedentemente guadagnati per comprarsi delle galline. Si scusò con la piscina e le disse con tenerezza: —Amica mia, ti prometto che è solo una questione di pochi mesi. Dammi il tempo di guadagnare qualcosa con la vendita delle uova, e tornerò per ripulirti da cima a fondo, ti comprerò dell’acqua buona e del cloro per farti splendere come un tempo.
Tuttavia, non si aspettava di certo che i tempi che seguirono potessero essere persino peggiori dei precedenti. Un giorno arrivarono da lui i soldati e gli portarono via tutte le galline. Pascoal se ne stette zitto, ache se avrebbe potuto dire qualcosa. Lo picchiarono malamente, lasciandolo mezzo morto sul fondo della piscina. Altri soldati, diversi dai precedenti, andarono a fargli visita qualche mese dopo, in quanto avevano sentito dire che c’era un albino che possedeva delle galline. Ma, dal momento che di galline non ne trovarono manco una, per ovvie ragioni, se la presero con lui e fu picchiato anche da loro.
La guerra riprese più rabbiosa prima. Per circa cinquantacinque giorni gli aerei bombardarono la città, o meglio, quello che rimaneva della città. Il cinquantaseiesimo giorno cadde una bomba che distrusse la piscina. Pascoal rimase sepolto sotto le macerie per alcune settimane, finché arrivarono tre uomini a bordo di una Jeep, un bianco, un mulatto e un nero, tutti vestiti in giacca e cravatta. Mio Dio, mio Dio—gridò il mulatto mentre faceva gesti di disperazione.—Qui c’è stato un urbicidio! Un urbicidio!
Benché Pascoal non capì il significato di quella parola, gli piacque fin da subito. “C’è stato urbicidio” lo disse lui stesso di nuovo e, ancora oggi, quando gli viene in mente la piscina, ricomincia a ripetere all’infinito la stessa frase “Urbicidio, quello fu proprio un urbicidio”.
Una troupe di bianchi, evidentemente stranieri, tutti in cuffie celesti, tirarono fuori Pascoal dalle macerie durante una notte, mentre la pioggia cadeva su Luanda. Egli rimase due giorni in ospedale, dove gli curarono le ferite e gli diedero da mangiare, finché non decisero di dimetterlo. Il vecchio cominciò a vivere per strada. Un giorno di dicembre molto caldo, gli si avvicinò l’indiano di un negozio aperto da poco nella zona di Mutamba, e gli disse:
—Ascolta, abbiamo bisogno di un Babbo Natale. Saresti perfetto perché la barba ce l’hai già, così non te ne dobbiamo procurare una noi; inoltre, con la pelle nordica che ti ritrovi saresti più autentico di chiunque altro. Paghiamo tre milioni al giorno, ci stai?
Il suo lavoro consisteva nello starsene di fronte al negozio, indossando un pigiama rosso ed un berretto in testa. Poiché era troppo magro, dovettero legargli due cuscini in vita. Pascoal soffriva maledettamente il caldo, sudava il giorno intero sotto il sole ma, nonostante tutto, per la prima volta in molti anni poteva dire di sentirsi felice. Così vestito, con un sacco in mano, offriva piccoli doni ai bambini, ovvero dei preservativi che un’associazione umanitaria non-governativa svizzera aveva dato al Ministero della Salute, e intanto invitava i genitori ad entrare nel negozio. “Sono Babbo Natale cambulador“, spiegò al Generale quando lo incontrò.
Cambulador era il nome dato a gente che veniva contrattata durante la prima metà del XX secolo in Angola, avevano il compito di corrompere i clienti davanti alle attività commerciali. Man mano che i giorni passavano, Pascoal cominciò ad apprezzare sempre di più il suo lavoro. I bambini gli correvano incontro a braccia aperte. Le donne gli sorridevano, come se fossero sue complici, e gli facevano l’occhiolino. E pensare che prima d’allora nessuna donna gli aveva mai rivolto neppure un sorriso! Gli uomini si complimentavano con rispetto: Buona sera, Babbo Natale! Quest’anno di regali ne abbiamo?
Il vecchio amava soprattutto vedere lo stupore sui visi dei bambini di strada. Questi si mettevano in cerchio, chiedevano il permesso per toccare il suo sacco pieno di doni. Un giorno uno di loro, un bambino parecchio denutrito, si attaccò alla sua gamba e lo implorò: Babbo Natale, per favore, dammi un palloncino.
Pascoal aveva ricevuto chiare direttive e non poteva donare preservativi ai bambini che non erano accompagnati da nessuno; persino quando erano in compagnia, doveva controllare chi vi fosse insieme a loro. Il contratto parlava chiaro: i bambini di strada dovevano essere tenuti ben alla larga.
Alla fine della seconda settimana di lavoro, alla chiusura del negozio, Pascoal decise di rimanere in costume e andare alla birreria vestito così. Il Generale, pur rendendosi conto della situazione imbarazzante, non disse nulla e gli dette la sua solita razione di zuppa.
C’è troppa miseria in questo paese—si lamentò il vecchio mentre mangiava—, il crimine deve ricompensare.
Quella notte gli apparve di nuovo in sogno la piscina. Vide anche una bella signora che scendeva dal cielo e veniva a poggiarsi sul bordo del suo tavolo da biliardo. La donna indossava un abito corto con pietre luminose e portava una corona dorata sul capo. La luce le rimbalzava sulla pelle come se fosse lei stessa una lampada.
Tu sei Babbo Natale,—la donna gli parlò— ti ho mandato qui per aiutare i bambini sfortunati. Vai al negozio, riempi il sacco di giocattoli e donali ai bambini che non hanno nulla.
Il vecchio si svegliò di soprassalto. Nella profondità della notte, attorno al tavolo da biliardo, fluttuavano minuscule particelle incandescenti. Si riavvolse nella coperta ma non riuscì a riprendere sonno. Decise allora di alzarsi, si rimise addosso il vestito di Babbo Natale, prese il sacco e andò per strada. In poco tempo raggiunse la zona di Mutamba. Il negozio brillava, era enorme, sovrastava la piazza deserta sembrado un disco volante. Le Barbie occupavano la vetrina principale, ognuna con un bel vestitino, ma tutte avevano lo stesso sorriso annoiato in volto. Nell’altra vetrina c’erano i mostri telecomandati, le pistole giocattolo e le macchinine elettriche. Pascoal sapeva che se avesse rotto il vetro di una delle vitrine, avrebbe potuto far passare la mano dalle sbarre e aprire la porta d’ingressso. Prese in mano una pietra ridusse il vetro in frantumi. Stava quasi uscendo, col sacco pieno zeppo, quando si ritrovò davanti un agente di polizia.
Nello stesso momento, dietro il poliziotto, si illuminò un albero d’acacia in un angolo della strada, e Pascoal rivide la bella donna che gli sorrideva, stando a mezzaria fra la luce che emanavano i fiori. Il poliziotto non si accorse di nulla.
Vecchio, devi vergognarti—gli gridò contro.—Dimmi che hai nel sacco!
Pascoal sentì che la sua bocca si muoveva senza che la potesse controllare e ascoltò la sua stessa voce che diceva: Rose, signore.
Il poliziotto lo guardò confuso: Rose? Il vecchio sta delirando…
Tirò fuori dalla fondina una pistola, gliela puntò in direzione della testa e gridò:
—Rose? Avanti, fammele vedere, subito!
Il vecchio ebbe un momento di esitazione. Guardò di nuovo l’acacia in fiore e la signora che gli sorrideva, in tutta la sua bellezza e avvolta da una festa di luci. Prese il sacco e lo svuotò davanti al poliziotto.
Erano rose, fatte di plastica, ma erano davvero delle rose.
José Eduardo Agualusa (Alves da Cunha) è un giornalista e scrittore angolano (Huambo, 1960) di origini brasiliane e portoghesi. Ha studiato agronomia e silvicoltura all’Istituto Superiore di Agronomia di Lisbona. Scrive sul giornale portoghese Público, con cui ha una lunga collaborazione, ha realizzato il programma A Hora das Cigarras (L’ora delle cicale), dedicato alla musica e alla poesia africana su Antena 1 e RDP África. È membro dell’Unione degli Scrittori Angolani (União dos Escritores Angolanos) e autore di numerosi romanzi e libri di racconti tradotti in oltre trenta lingue, molti di questi anche disponibili in lingua italiana.
Note
Tradotto liberamente dal racconto originale.
2 responses to “La notte in cui Babbo Natale fu arrestato”
Una bella favola hai tradotto. Molto bello è il racconto di questo uomo che ha il candore della sua pelle e nonostante tutto ha l’anima candida.
Complimenti.
Bella serata
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grazie, Gian Paolo! Spero l’anno sia cominciato bene, buon proseguimento!
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